“Un piccolissimo seme che tenendolo in mano si fa fatica a vedere,
ha in sé la potenzialità di diventare un grandissimo albero.”
(Lao-Tzu)
“Lei non ha idea di quanto sia importante per me questo regalo” – dissi allo stralunato e stupito dirigente del settore squadre nazionali femminili, che mi guardava dall’alto in basso come a dire… per così poco?
Quella notte dormii con la tuta blu navy della nazionale italiana, con le mani in tasca, tasche rivestite di garza royal, e la certezza che anch’io ora facevo parte di questa grande famiglia in cui IL gioco, e sottolineo IL perché non ce ne sono altri paragonabili per intelligenza ed emozione, IL gioco della pallacanestro era ed è il fondamento principe di ogni particella vitale della propria esistenza.
Era il mese di settembre del 1997 quando decisi di insegnare pallacanestro alle mie due figlie di sette e cinque anni. E come sempre ho fatto nella mia vita, non le iscrissi semplicemente ad un corso di minibasket come fanno tutti i genitori di questo mondo, no, troppo semplice. Pensai di tenere io un corso in parrocchia, di invitare i loro compagni di scuola e di provare a divertirci tutti insieme, imparando a giocare con la magica e meravigliosa palla arancione a spicchi.
Una volta appesi cartelli e volantini tra oratorio, scuola e negozi del quartiere, comprati due canestri removibili, dieci palloni, dieci coni e dieci cerchi, il giorno prefissato all’uscita dalla scuola, mi ritrovai con ben quattro bimbe in abiti variopinti, saltellanti nel salone grande sotto la chiesa. Un pavimento in piastrelle, pareti bianche e tanto, tanto spazio gioco tutto per noi.
Don Attilio mi guardò sorpreso dalla mia inattesa sfiducia ma, sorridente e con fare dolce, mi disse: “Non ti preoccupare. Tu comincia e vedrai quanti bambini arriveranno…”
Entro Natale arrivarono bambini e bambine, l’età era compresa dai 5 ai 10 anni, nel numero di circa 17. A Giugno eravamo a 32 bimbi che correvano con la palla in mano. L’anno dopo ci iscrivemmo come centro minibasket San Gabriele con una squadra scoiattoli e una aquilotti. L’anno dopo ancora, il 19 ottobre 1999, ci affiliammo alla Fip come società sportiva.
Stava nascendo il San Gabriele Basket, che esordì nel primo campionato di pallacanestro della storia con una squadra maschile di nati tra l’87 e l’88, più due ragazze: Roberta e Veronica, il sale e il pepe di quella prima squadra per così dire “agonistica”. Ma la forza vera è stata il gruppo del 1990, una squadra Gazzelle che fu la vera pioniera e pietra fondatrice sulla quale abbiamo cominciato a costruire non una semplice storia ma… Una vera e propria “Leggenda”…
Insomma una sorta di “zoccolo duro” che fece da “pietra angolare” nella costruzione, perché ben presto arrivarono le mitiche ottantanove ad arricchire il gruppo.
Bea è stata la prima ad essere rubata alla pallavolo. Grazie al pronto regalo, dopo un solo allenamento, della meravigliosa e magica sanga divisa orange, completa di ogni accessorio. Poi è toccato alla ex danzatrice Nico, che sa Dio come ci fosse finita in quel corso “troppo grazioso” per una come lei, una furia incontenibile, un vero e proprio “maschiaccio” che menava senza riguardo bimbi e bimbe che le capitavano a tiro o che solo si accingessero a volerle rubar palla! Inutile sottolineare come fosse sempre fuori per cinque falli, e con quello sguardo tenero e gli occhi da angioletto che dicevano: “… ma cos’ho fatto?…”
Si aggiunsero Giulia, Margot, Lisa a completare un roster che riuscì a non perdere una sola partita per quasi due anni di fila tra il minibasket e il primo anno di pallacanestro che allora si chiamava “allieve”. Ricordo però che tutto cominciò da una serie di batoste prese nel primo anno giocato con una squadra tutta femminile nel campionato minibasket maschile. Perdemmo la prima partita proprio al Pala Giordani in Via Cambini (un nome, un destino, l’attuale campo della serie A) per 94 a 7 contro i pari età della Tuminelli. La nostra Carlotta, un’incontenibile forza della natura, dopo la prima contesa, pronti via, dall’emozione segnò addirittura nel nostro canestro.
Insomma mi divertivo molto di più a guardare le facce dei genitori avversari che le mie ragazze giocare. Certo che erano aggressive, perché pressavano a tutto campo e potevamo giocare in dodici senza quasi sentire cambiamento alcuno in campo, per quanto riguarda intensità e voglia. Insomma questo gruppo aveva una passione, un entusiasmo e una tale dedizione al basket, che arrivammo ad allenarci anche tutti i giorni, a fasi alterne, anche per un paio di settimane consecutive, solo perché dovevamo “preparare” una partita da noi ritenuta importante. E i genitori non erano da meno. Si sa che molte cose si possono fare solo con l’appoggio incondizionato e la collaborazione dei genitori. Senza di loro è una lotta contro i mulini a vento. Con loro, quando i ragazzi e le ragazze sono piccoli o adolescenti, tutto diventa più facile. E’ per questo che non smetterò mai di ringraziare quelle famiglie, composte da persone super appassionate sulle quali si è costruito l’attuale Sanga Mondo. E’ grazie a loro se oggi siamo quello che siamo.
Ma nulla è paragonabile all’emozione di aver vissuto insieme a queste ragazze le centinaia di partite, le migliaia di ore di allenamento e quasi centomila ore di vita. Un percorso di apprendimento di uno sport che è diventato strumento per un incontro. L’incontro di passioni, la condivisione di idee, progetti, il vivere ogni santo giorno della nostra vita da oltre dieci anni a questa parte con un solo obiettivo: crescere insieme, formando e migliorando ognuno di noi la propria persona. In un’ evoluzione temporale e cronologica che, a volte, è andata ben oltre il Tempo reale. Il basket, questo modo di intenderlo e praticarlo, ci ha cambiato dentro: nella mente, nel cuore, nell’anima e perché no, anche fisicamente. Per qualcuno di noi lo testimoniano anche i capelli bianchi, per le bimbe e i bimbi del San Gabriele lo testimoniano il cambiamento e la maturazione fisica e intellettuale occorsa dalle scuole elementari, in cui li abbiamo prelevati, alle università che ora frequentano da adulti consapevoli. Ma sempre con una comune grande passione: il basket, quella benedetta palla arancione a spicchi da palleggiare, tirare, lanciare, maltrattare e amare. E’ bello vedere oggi alcuni di questi ex-bimbi scendere in palestra per provare ad allenare, a dare una mano sotto qualunque forma, per mettersi a disposizione di questa improbabile ma grande famiglia allargata.
Ci sono stati momenti belli ma anche molto duri in questi anni, e per molti motivi. Ma su tutti ce n’è uno che ancora non sono riuscito a metabolizzare, e credo non ci riuscirò mai, la morte improvvisa di Chiara De Ponti. Ricordo che stavo arrivando a Verona per tenere una conferenza stampa con gli Harlem Globetrotters, ero in auto. Una telefonata di una mia giocatrice che mi racconta, tra singhiozzi e parole biascicate che proprio in quella notte, tra il 23 e 24 aprile 2009, Chiara si era spenta a casa sua, caduta a terra senza motivo apparente. Non era malata, non aveva nulla di nulla. Se ne è andata così. L’avevo vista abbronzata e bella, sorridente come sempre, il martedì precedente all’allenamento. Mi aveva detto che forse l’anno dopo non ci sarebbe stata perché voleva andare a studiare all’estero. E difatti, in un attimo, non ci fu più.
Il Sanga è anche maschile. Diventato Tigers, le Tigri di Milano. Il settore maschile delle stesse annate delle nostre prime “campionesse” era anch’esso un gruppo meraviglioso, ma questa è un’altra ricca pagina della stessa storia. La metà di un Intero che volge lo sguardo all’Assoluto. Quell’Assoluto in cui Chiara si è immersa e vive. Il suo sorriso accompagnerà le gesta eroiche del Sanga. Per Sempre.